Autore: Mario Paolo Petrangeli - Luigi Fieno , Riccardo Orlandi
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15 novembre 2019
Premessa In Italia vi sono più di 4.000 km di viadotti stradali, la maggioranza dei quali sono in esercizio da più di 30 anni, cioè da quando si progettava ignorando il requisito di “durabilità” che ora consideriamo essenziale quanto quello della “resistenza”. Stime attendibili (P. Mannella “Monitoraggio e Valutazione di Ponti e Viadotti” ENEA-Roma 14/2/2019) indicano che circa il 40 % di queste opere hanno impalcati in cemento armato precompresso con cavi post- tesi. Se si considera che all’epoca della loro costruzione la tecnica del precompresso era relativamente “giovane”, essendosi affermata dopo gli anni 50 del secolo scorso, ne consegue che le tecnologie ed i materiali utilizzati non potevano contare su una esperienza consolidata. Ciò ha riguardato in particolare le iniezioni dei cavi da effettuarsi dopo la loro messa in tensione: la cattiva esecuzione di questa operazione, cruciale per evitare la corrosione dei fili di acciaio armonico, ha creato grossi problemi in tutta Europa, al punto che in Inghilterra per un certo numero di anni la costruzione di questi ponti fu proibita. Anche in Italia si sono avuti seri problemi, che in alcuni casi hanno portato al crollo di alcune travate. Ciò impone un accurato controllo di questo tipo di impalcati, a valle del quale spesso si pone una scelta molto impegnativa sia dal punto di vista economico che ambientale: riparare o demolire. In alcuni casi questa decisione è agevolata da valutazioni più generali: è il caso di quei viadotti in cui la sostituzione di un impalcato in c.a.p. con altro più leggero in acciaio consente di adeguare sismicamente l’opera evitando costosi interventi sulle pile o sulle fondazioni. Nella maggioranza dei casi, però, la scelta non è così scontata, ma è necessario svolgere una analisi accurata costi/benefici, partendo dai vincoli imposti dalle Norme attuali. Nel seguito di questo si faranno alcune considerazioni in merito.